L’amore per la famiglia, la riscoperta della dignità di essere uomo. Il Progetto Sicomoro è stata la rinascita di un detenuto.
In principio fu la strada, poi la camorra. Cominciai a “vivere” la strada a 12 anni, somigliandole sempre più: lei spoglia di una struttura sociale, io privo di qualsiasi punto di riferimento. Ben presto quella strada divenne terra di confine, oggetto di contesa; e io, cane sciolto, dovetti “scegliere” se soccombere o schierarmi. Nel 1978, a 17 anni, entrai organicamente a far parte della camorra. Plasmato e allevato alla cultura del malaffare, lo status di camorrista assunse i connotati del privilegio, alimentando in me l’illusione di essere uscito dall’emarginazione, di avercela fatta. Dal 1978 sono trascorsi 33 anni, e un biennio –‘89-‘91 – di follia, avendo partecipato alla commissione di molti delitti. Ma dal mio ultimo arresto nel ‘91, niente più nemici da combattere, né territori da difendere, ma un grande vuoto da colmare e un silenzio assordante a cui dare voce. È stato l’amore per la mia famiglia a salvarmi. Cercai di ritrovarmi negli occhi di mio padre e di mia madre, ma l’immagine che riflettevano non mi piaceva: non vedevo altra soluzione che farla finita, ma ciò avrebbe aggiunto altro dolore, e io avevo deciso di vivere. Quello che avevo fatto non aveva reso la mia vita migliore, allontanandomi dai miei cari. Decisi di seguire l’unica strada possibile: riprendermi me stesso e la mia dignità di uomo. Sapevo che non sarebbe stato facile tagliare i ponti con il passato, ma mai avrei immaginato quanto potesse bruciare la consapevolezza di quali brutalità mi ero macchiato? Quali indicibili sofferenze avevo contribuito a portare nella vita di genitori, figli, fratelli, sorelle? Il solo pensiero mi scatenava forti emicranie. Il Signore aveva deciso di darmi un’altra possibilità, mettendo sulla mia strada persone speciali che, assieme ai miei familiari, mi hanno sostenuto e accompagnato in questo viaggio difficile, fatto di riflessione e autocritica. Confessai tutti i delitti commessi, recidendo ogni legame con la criminalità e con la mia terra di origine. Ma non bastava: dovevo riconciliarmi con me stesso, perdonarmi prima di essere perdonato. Mi parve una follia. Dovevo, volevo continuare a lavorare su me stesso, ma in maniera diversa: avrei interrotto il silenzio portando la mia storia a testimonianza della indegnità della vita criminale; avrei messo a nudo le cicatrici e i sensi di colpa a nutrimento di chi avesse voluto ascoltare ed evitare di commettere i medesimi errori. La svolta è stata l’incontro con i familiari delle vittime del crimine organizzato nel Progetto Sicomoro di Prison Fellowship Italia, patrocinato dal ministero della Giustizia. Otto incontri tra detenuti e parenti di vittime di mafia: tra questi il signor Mario, a cui la criminalità ha ucciso il figlio e Nicoletta, che ha perso il fratello di 18 anni. Siamo stati posti gli uni dinanzi agli altri volontariamente, come se ci stessimo cercando da tanto tempo: da un lato noi – tra cui io, con il fardello dei miei 50 anni consumati dal tragico passato e dalla galera – dall’altro, loro, vittime innocenti. Tutti sapevamo che ci saremmo incontrati otto volte e che il tempo sarebbe stato tiranno; eppure per i primi due incontri non sono riuscito a dire nulla: dinanzi ai loro sguardi di dolore mi sono sentito a disagio. Avrei voluto scomparire, ma il loro desiderio di capire ha prevalso sulla mia vigliaccheria. Quando ho aperto il mio cuore loro hanno fatto lo stesso facendomi sentire nuovamente un uomo. Certo, a cospetto del loro dolore, un uomo piccolo piccolo. Spero che un giorno, come con Mario e Nicoletta, anche le persone a cui ho fatto direttamente del male possano maturare l’idea di perdonarmi. Io ho iniziato a farlo. La riconciliazione, se la si vuole davvero, può rappresentare la guarigione.